Maternità
Lavoro
Immagine/corpo
Questi sono i temi di cui si parla quando si propone una riflessione femminile. È chiaramente impossibile prescindere da questi punti per avviare una riflessione che includa il femminile e parta da esso ponendosi proprio il femminile come orizzonte di senso. Sembra che le donne confinino la loro elaborazione concettuale ancor prima che politica intorno ai nodi irrisolti del rapporto con la maternità, del lavoro inteso principalmente nella sua dimensione di conciliabilità o inconciliabilità con la sfera privata/familiare. Anche quando si parla della maternità, l’accento è posto principalmente sulla cura dei figli che ancora oggi sembra di appannaggio esclusivo delle donne. Il discorso varia un po’ se si considera l’uso dell’immagine femminile a misura del mercato.
Ora, che una riflessione su questi temi non debba mai abbandonare il campo è un dato non controvertibile; quello che appare necessario, però, oggi a 40 anni e più dalla presa di parola delle donne sugli argomenti appena citati, è l’abbattimento di quelle barriere che fanno della questione femminile un ghetto con temi, pratiche e posizioni ben consolidate, all’interno delle quali aggiungere o togliere o variare, in virtù della specificità del momento storico, spunti e argomenti.
La “questione femminile” rinchiude le donne in un ambito che se da un lato le pone al centro delle questioni in cui la parola donna è d’obbligo, dall’altra le esclude dall’agire il presente storico, politico e sociale in ogni suo aspetto. In linea di massima è giusto che le donne si occupino di maternità e di conciliazione famiglia/lavoro, ma occorrerebbe iniziare a farlo a partire da un reale e concreto riposizionarsi all’interno della società, ripensandola in un’ottica di genere che non si dia però dei limiti culturali e di azione politica.
Incidere politicamente nella società significa non solo essere presenti (che è comunque il primo passo) ma significa essere in grado di elaborare pensiero e, poiché viene dalle donne, pensiero della differenza, che possa veicolare un cambiamento culturale prima e politico poi.
La società ha bisogno, oggi con una certa urgenza, di essere ripensata e reindirizzata in forme e modi in grado di rendere conto e di assumere come paradigma le differenze (sessuali, religiose, etniche, di classe), e questo presuppone una azione politica in grado di uscire dal ghetto e farsi garante dell’espressione e della sopravvivenza di modalità e forme diverse dell’esistenza.
Perché le donne non si interrogano su quanto avviene nel mondo e del modo in cui possa essere intrapresa una strada diversa? Perché le donne possono parlare solo di maternità e lavoro di cura e uso della loro immagine a fini pubblicitari?
Cosa ne è della crisi economica in cui il capitalismo sta implodendo?
Cosa ne è delle guerre che stanno decimando interi popoli?
Cosa ne è della convivenza tra etnie e orientamenti religiosi e sessuali diversi, dell’accoglienza dei profughi?
Cosa ne è della precarietà che ci impedisce di vivere con pienezza la nostra cittadinanza?
Cosa ne è delle famiglie che non arrivano alla fine del mese? Dei giovani a cui non è più garantita un’istruzione degna?
Cosa ne è delle violenze che subiamo nelle strade e nelle case?
Cosa ne è dei ricatti sul posto di lavoro? Dei diritti cancellati dal potere del padrone?
Cosa ne è dei poteri occulti che governano subdolamente le nostre vite?
D’accordo che la maternità è un tema caldo. D’accordo che le donne fanno ancora fatica a trovare uno spazio pubblico che non interferisca con il privato e viceversa, ma cosa dire della legge Brunetta che sta falcidiando i/le lavoratrici part-time?
Perché di tutto questo e molto altro le donne non si occupano?
Occorre uscire dal ghetto in cui ci siamo rinchiuse pensando che le donne debbano occuparsi solo delle cose da donne o delle donne, occorre abbattere i confini della “questione femminile” e cominciare a fare politica allargandone gli orizzonti. Occorre che le donne si occupino del mondo e non solo di quella parte che sentiamo più vicina o urgente. È necessario che le donne si occupino del mondo e del modo in cui si può tentare oggi di tenerlo in piedi.
Fuori dal ghetto, per le strade senza bavagli né copioni già scritti.
Come si fa a cambiare la cultura della “maternità esclusiva” se non si interviene sui modi di produzione, sull’abbattimento dei diritti e sull’immobilità, spesso connivente con i padroni, del mondo sindacale, lo strapotere finanziario delle banche e delle multinazionali, l’assoluta mancanza/impossibilità di iniziative popolari che veicolino le esigenze e i desideri di tutte e tutti anche quelle che non hanno il tempo, la preparazione, la consapevolezza di incarnare una differenza che può davvero contribuire a cambiare il mondo?
È ora di smetterla con gli slogan, le donne possono davvero cambiare questo paese ma devono cominciare ad occuparsene in tutte le sue manifestazioni, senza preclusioni né preconcetti.
Sono una donna e il mondo mi riguarda per intero!!!
Altra questione: la trasversalità del movimento.
È chiaro che a scendere in piazza per dire basta allo strapotere dei media che mortificano l’immagine delle donne usandole come oggetti funzionali alla vendita di un dentifricio, debbano essere tutte le donne al di là delle appartenenze e delle convinzioni politiche e, aggiungo, tutti gli uomini che non si riconoscono in un modello di rappresentazioni gretto e offensivo per la dignità di tutte e tutti. Ma…
Quando si tratta di elaborare contenuti programmatici la trasversalità mostra i suoi limiti. Come è possibile elaborare una piattaforma di contenuti sociali e politici comuni a donne di destra e di sinistra? E con destra e sinistra intendo una precisa collocazione nella società. Come posso io situarmi sulla stessa linea di principio di una donna che ritiene che la spazzatura di Napoli debba restare a Napoli, che l’acqua debba essere gestita da privati, che a Otranto debba sorgere una centrale nucleare, che i precari siano la parte peggiore del paese…?
Non è sufficiente essere donne per avere uno sguardo comune sul mondo, un abisso mi separa dagli uomini di governo ma anche dalle donne di governo, e dal loro elettorato (donne o uomini che siano). A meno che non si parli delle “cose da donne” in cui tutte ci barcameniamo alla meno peggio nella quotidianità.
Certo è che tutte (o quasi) le donne concordano con l’idea di avere accesso al potere, a posizioni di prestigio, alle poltrone che contano; che il lavoro di cura vada condiviso e che, in generale, si smetta di pensare alle donne come l’angelo del focolare o le madri della patria.
Il problema è che continuando a ghettizzarci acutizziamo la scissione lacerante che ci immobilizza di fronte alla svolta di cui non sembriamo essere attrici. Frequento assiduamente i luoghi in cui le donne si esprimono ma, se voglio impegnarmi in temi con una connotazione sociale e politica rilevante per il presente del paese o del mondo globale che mi inghiotte, devo unirmi ai gruppi (misti ma a carattere e impostazione maschile) che fanno politica e si occupano di questo o quello.
Dov’è la differenza femminile?
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